Quasi Ombra

di Cristina Muccioli

Quando, come in questo caso, la storia che ci precede si fa presenza e non passato, non basta dire che la scultura di Martinelli entra in relazione con lo spazio.
Ci si rifugerebbe in una soluzione del lessico critico che i teorici talvolta si concedono come una ben testata chiave di volta interpretativa.
Qualsiasi oggetto (oggetto, nemmeno “opera”) entra in relazione con lo spazio, tant’è che uno dei modi più frequenti di alludere alle “cose” per i Greci era la parola “pròblema”, da cui “problema” nell’italiano corrente. Una pietra, un divano, una colonna, un altare o una scrivania fanno problema, e vanno risolti funzionalmente o esteticamente a partire dal loro stesso ingombro. Possono essere inciampo o esornamento, soluzione funzionale o entrambe le cose, ma occupano fisicamente e percettivamente parte dello spazio cui sono assegnate, quindi gli si relazionano.

Più significativo è sottolineare, invece, come l’artista Martinelli abbia voluto, cercato e trovato il modo di dialogare con l’ambiente espositivo ospitante, per nulla neutro, niente affatto innocuo: la Fondazione Biblioteca Morcelli – Pinacoteca Repossi a Chiari, scrigno architettonico ottocentesco di un tesoro artistico di pregio e finezza indubitabili.
Si susseguono nelle sale stampe di Albrecht Dürer, Giambattista Tiepolo, Hammerszoon van Rijn Rembrandt, Annibale Carracci, Palma il Giovane; affreschi Quattrocenteschi e dipinti Cinquenteschi (uno attribuito a Tiziano) fino ai contemporanei (da Emilio Isgrò a Mimmo Rotella), sculture di Gaetano Monti, Paolo Troubetzkoy, Vittorio Pelati, Andrea Cascella, Pietro Consagra, e dello stesso Felice Martinelli; e infine i gessi degli artisti clarensi Tullio Borsato e Antonio Ricci.
Elencare solo alcuni degli autori che arricchiscono la collezione Morcelli Repossi può sembrare facezia peregrina, o cronachistica: è evocativo delle presenze che letteralmente abitano il palazzo storico in cui Quasi ombra prende corpo.

Ebbene, in che modo, si diceva, Martinelli si è fatto carico del luogo, del contesto del proprio testo iconografico? Giocando seriamente, accuratamente, tra la dimensione ambientale del volume di alcune sue opere, e quella illusoria del foglio; plasticità tridimensionale e segno pittorico si alternano, individuano l’eleganza appartata di teche e bacheche trasparenti, la scacchiera bianca e nera o il bouquet di geometriche corolle carminio dei pavimenti, l’epifania glassata dei marmi levigati sui fianchi delle dee diafane, la solenne austerità dei ritratti a parete -pubblico vigile, eterno, immobile, intatto e taciturno sospeso nelle sale-.
Li incontra e cerca l’incontro, accantona velleità di primazia antagonista in favore del più riuscito degli anacronismi: trovare qualcosa di contemporaneo nella sedimentazione storica e storicizzata delle collezioni permanenti, e qualcosa di arcaico, di archetipico, nelle proprie opere.
Questione di essenze, sfumature, strutture, grammatiche compositive non ancora sostanziate dall’eloquenza dei periodi narrativi: Quasi ombra.

Contano i nessi, le relazioni, gli echi cromatici, le sinapsi -quasi- invisibili tra una figurazione da archivio che parrebbe satura di ogni possibile discorso, e un’espressività potentemente contemporanea, allusiva all’astrazione, alla frammentazione, allo smontaggio e alla ricomposizione di linee e di forme.
Il tipo di fruizione cui lo spettatore è chiamato per partecipare appieno alla mostra non è soltanto estetica, che ci metterebbe in rapporto con la singolarità del pezzo esposto. E’ gestaltica, potremmo dire prendendo in prestito il termine dal repertorio psicologico, ci pone in relazione con l’insieme delle forme pure che creano intrinsecità costitutiva, immanente, tra Quindicesimo e Ventunesimo secolo.

Esporre, per un artista contemporaneo non solo e non tanto per ragioni anagrafiche ma per stile, timbro, impronta, in un contesto già fortemente connotato e saturo di autorialità, invece che nell’ambiente asettico, immacolato, neutro e perfettamente vuoto quale quello delle Gallerie, è estremamente impegnativo. Implica di considerare con attenzione l’impatto estetico nell’accostare epoche drammaticamente diverse, così che da un lato i propri lavori non vengano fagocitati dall’imponenza monumentale del passato, e dall’altro le antichità accasate, incastonate armonicamente nel loro habitat oramai naturale, non vengano ferite, cannibalizzate da una presenza che ha dalla sua un linguaggio corrente, certamente non per tutti, ma familiare persino a orecchie poco fini per il contemporaneo.

Chi espone si espone. Martinelli si mette in gioco, prende posizione nel decidere di misurarsi con uno spazio condiviso, non dedicato. Questo è sicuramente uno dei modi più efficaci e apprezzabili per salvare dall’oblio opere d’arte del passato che rischiano altrimenti di rimanere isolate in una museificazione stantia, immobile, mai interpellata dai nostri sguardi, fatta eccezione per quelli degli studiosi.
“La forma più alta dell’intendere è il rivivere: solo attraverso di esso noi possiamo sottrarre il presente alla scomparsa e trasformarlo in una presenza sempre disponibile”, scrive Mario Perniola ne L’estetica contemporanea. Di per sé la dimensione del tempo presente è destinata a dissolversi dopo una durata attimale. Trasformando, elaborando, rivivendo i principi compositivi della classicità, l’opera si salva consegnandosi a un divenire sempre in cammino, già disponibile a evoluzioni ulteriori.

E che cosa permane, quando ci riesce? Qual è l’idioma, il gergo in cui la collezione Morcelli Repossi e quella di Martinelli si parlano e si comprendono? Quello della ragione della forma.

Se nelle opere di stile classico si percepisce con nettezza la coerenza progettuale nella definitività dei contorni (bi o tridimensionali, pittorici o plastici), in quelle di Martinelli la ratio è continuamente generativa: non vincola cioè la realizzazione dell’opera a un fedele sviluppo predeterminato e previsto del progetto, ma la apre a una sperimentazione continua, dinamica, estremamente aperta e complessa eppure mai caotica.
Non processi esecutivi della razionalità che si invera e si conferma con regolare predeterminazione, ma inquieti, saettanti, vorticosi movimenti della ragione si manifestano, affiorano umbratili nelle opere di Martinelli: sempre di ragione però, di ricerca consapevole, accanita e cosciente stiamo parlando. Ciò che differisce massimamente tra le due collezioni è anche ciò che massimamente le accomuna e la fa con-sistere.
Anche nelle composizioni più solide e scontornate, la tensione non si dirige mai verso l’oggetto compiuto, ma verso il progetto che a partire dallo sguardo stesso e dalla sua posizione ne cambiano l’assetto.

Frammenti, pezzi tubolari e lamine metalliche ora convergono per individuare orizzontalità (Sete) nell’aria, che si densifica in spazio, ora per rintracciare e inseguire di slancio la verticalità (Rogo d’astri). Un conflitto drammatico e pacificato da una sintassi equilibrista innesta orizzontalità e verticalità l’una nell’altra (Black Eros) spingendo la ragione nostra, questa volta, a immaginare sviluppi, ovvero episodi costruttivi possibili, ulteriori. La frattura (s)composta degli elementi rinvia a quei fatti atomici, slegati, che solo nel discorso amoroso, per dirla con Roland Barthes, trovano armonia miracolosa grazie a connettivi linguistici quali il “con”, “e”.
 Tu “e” io, io “con” te fanno di due esistenze incarnate e configgenti un dialogo, un arcipelago segnico, una unitarietà che non è mera unità e sovrapposizione. Quei connettivi linguistici sono, per Martinelli, le saldature fatte a fuoco, materia prima fondamentale e in ombra di molte sue sculture. Black Eros, come segnala già il titolo, parla d’amore come di un sentimento minerale, ferroso, scuro, per nulla liquoroso e conciliante.
La composizione metallica ricorda antiche armature di guerrieri nipponici, le loro piastre quadrangolari a schermare il petto e le braccia, la lancia pronta a essere scagliata in attacco e in difesa, l’elmo (Kawari Kabuto) dalle protuberanze affilate, puntute, i gambali che finiscono per sigillare completamente il corpo in una divisa che lo rende inaccessibile, metamorfico, inviolabile come cosa sacra chiamata a tutela di ciò che è più sacro.

Prelievi di superficie e di materia cromatica dalle figure geometriche dipinte rendono l’assenza più reale e determinante della presenza. Si percepisce come sia il vuoto, non le volute né i rilievi a conferire dinamismo, movimento e leggerezza a una struttura.
Le parti mancanti si fanno luogo vero e proprio dell’accadere della forma in movimento.
Allo stesso modo, nel dialogo sottovoce e mai sopito col le opere della Fondazione, nel bronzo Danza Materna di Vittorio Pelati, è la sfera vuota disegnata da semicirconferenze di schiene a sottrarre percettivamente la scultura dalla sua stessa costitutiva solida stabilità, immobilità.
Pitture e sculture in Martinelli rivelano costantemente il senso (la direzione) e la sensazione del gesto fisico che febbrilmente sperimenta, verifica, cerca, sgravato dal vero e proprio vincolo cognitivo di far seguire l’oggetto dal progetto, come fosse una traduzione letterale.
Progetto e oggetto, al contrario, spesso arrivano a coincidere.
Se il progetto è pensato, anzi “in pensiero” nel suo fervente svolgersi, è incontenibile. Il supporto di disegni e altorilievi è invocato per arginare, dare misura (o ratio) a una mano in cui sono sedimentati saperi, esercizio, storia.
All’incontenibilità, alla tensione verso un infinito rappresentabile, si contrappone nell’artista la necessità, il desiderio imperioso di memoria, di costruire tracce: le fabbrica proprio, per rendere omaggio al concetto di traccia, di impronta, di segno lasciato nella memoria che pretende indelebile, salvata.
Usa il cemento, titola Bruta una di queste opere in cui il supporto è quasi più importante e decisivo di quanto, quasi ombra, affiora in superficie per scavo e modellatura. “Bruta” o “grezza” in chimica si dice delle formule che indicano natura e numero degli atomi, non il modo in cui sono legati tra di loro.
Martinelli inverte: dice dei legami chiarissimi, indissolubili, a sfavore del numero degli eventi curvilinei e rettilinei che si ripetono, che si spartiscono campiture, tracciando mappe di metafore esistenziali in cui “brutalmente” ognuno di noi può riconoscersi.
Da Aristotele a Leibniz passando per Hume e per Locke l’immaginazione iconica del ricordo, della facoltà della memoria che denota l’umano, è consistita in una tavola. Per lo Stagirita l’intelletto è come una tavoletta di cera pronta a ricevere l’impressione dei segni degli intelligibili, di tutto ciò che si rende percepibile e disponibile alla comprensione; per l’empirista John Locke la mente è un “white paper”, un foglio bianco passivamente ricettivo di segni e immagini che lo illustreranno: “nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu” (“non c’è nulla nell’intelletto che prima non sia stato nella percezione sensoriale”), scriveva nel suo Saggio sull’intelletto umano; Gottfried W. Leibniz proponeva un’alternativa alla concezione meramente e integralmente passiva dell’intelletto e della capacità mnemonica di trattenere segni. Paragonava la mente a una tavola di marmo, materiale non incolore né neutro, ma portatore di sue proprie venature e marezzature di colore tali da differenziare ogni lastra, ogni pezzo, in una singolarità irripetibile: “nihil est in intellectu, nisi intellectus ipse”, affermava infatti il filosofo tedesco ne Nuovi saggi sull’intelletto umano: non c’è nulla nell’intelletto, tranne l’intelletto stesso.

Se è impossibile non coniugare un’idea a un’immagine, come mostrano di fare nelle loro più pensose ipotesi anche i filosofi, allo stesso modo si può dire che è impossibile non legare un’immagine a un’idea.
C’è un’intrinsecatezza costitutiva e necessaria in ogni immagine artistica tra forma e idea che l’ha generata e che la in-forma, e ancora: tra forma, idea e materia che la fanno consistere, essere e apparire.
Così, nelle formelle di Martinelli titolate senza enfasi Cemento, o Bruta, l’immagine è quella di un supporto piano che, da pastoso e malleabile come la tavoletta di cera di antica ellenica memoria, si è solidificato, si è indurito per durare, per restare e significare. In modo altamente emozionante e poetico l’artista sceglie una materia grezza, ruvida e resistente come il cemento, usato in edilizia per costruire ciò che è portante, destinato a essere nascosto dal belletto dell’intonaco.
 In questi lavori è lasciato nudo, indizio di autentica simplicitas a mostrare passività originaria e attività destinale del produrre e conservare memoria, di cui rintraccia disegni e rilievi. Segmenti tridimensionali a spigolo vivo si suturano ordinatamente in un’ellissi spaziale e temporale che evidenzia, come nelle figure retoriche, un salto, un’interruzione, un vuoto.
Guardando il “tatuaggio” cementizio, il supporto della stessa sostanza non scompare, non si inabissa del tutto: Quasi ombra, conferma la densità di ciò che la proietta.

La luce, non il buio genera ombra.

Nel “quasi” contenuto nel titolo di questa mostra, si racchiude come un’intuizione eidetica luminosa l’oscillare metafisico, esistenziale dell’arte in equilibrio tra momenti che si appartano discosti, nascosti, e altri salvifici, fiammeggianti per intensità. Come accade a ciascuno di noi, vivendo.